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15 Ottobre 2021

Cavallerizzi in trasferta – LAGORAI ROCKIN’

Lo scorso 9 settembre, finalmente liberi dagli impegni universitari, Francesco Marchini, Simone Barbieri ed io siamo partiti per quattro giorni di scalate in compagnia.

Dopo avere consultato il meteo di tutto il Nord Italia, ci siamo diretti verso la Val di Rava in provincia di Trento, uno dei pochi luoghi non sfiorati dal mal tempo.

Alla base della Torre dei Cani Pazzi

La Val di Rava fa parte del complesso montuoso del Lagorai: una catena che si estende in direzione Sud-Ovest/Nord-Est dalla Valsugana a Passo Rolle, dove si congiungono la Val di Fiemme e la Valle del Primiero. La caratteristica più interessante di questo gruppo, oltre ad una scarsità di rifugi gestiti, e quindi ad un flusso turistico insignificante in confronto alle vicine Dolomiti, è la roccia. Infatti il Lagorai è costituito da un affioramento di rocce magmatiche come il granito (nella porzione più meridionale) e il porfido, nella zona più prossima a Passo Rolle. Il fatto che questa catena accolga ben pochi turisti la avvolge di un’aura di mistero che, sommata alla curiosità di provare un granito meno conosciuto di quello che abbiamo già sperimentato in altri luoghi più famosi come la Val di Mello e la Valle dell’Orco, ci ha fatto partire molto carichi per la nostra piccola spedizione. Dicendo carichi non intendo solo metaforicamente, infatti le informazioni ricavate dalla guida (Lagorai Rock, di Alessio Conz) lasciano, purtroppo o per fortuna, un po’ di spazio all’immaginazione. Perciò per essere pronti a tutto, i nostri zaini contenevano provviste per quattro giorni, una tenda e tutto il materiale da scalata tra cui dadi in quantità e due serie di friend.

Partiti in auto da Piacenza abbiamo raggiunto e superato Bieno. Giunti al parcheggio ci aspettavano due ore di buona salita per raggiungere il bivacco di Malga Rava di Sopra. Una volta arrivati abbiamo mangiato un boccone, dopodiché ci siamo subito diretti verso la falesia “La Fata del Lago”, che dista 10 minuti dal bivacco.         

Franci in viaggio su ISVARA

Abbiamo preso confidenza con la roccia su una delle poche vie spittate e abbiamo subito notato l’ottima qualità del granito su cui scalavamo. Presi dall’entusiasmo abbiamo attaccato la via “Isvara”, un tiro di 30 metri descritto nella guida come un diedro fessurato perfetto. Guardare questo tiro dal basso suscitava già un certo timore, e ben presto i nostri sospetti si sono rivelati fondati. Il tiro abbinava infatti una progressione in dulfer se non difficile almeno faticosa, a una proteggibilità potenzialmente buona. Peccato che l’unica fessura utile a proteggersi fosse tanto larga da poter utilizzare solamente friend dal n°4 in su. Noi purtroppo avevamo solo un n°4 e un n°5, che di certo non bastavano per 30 metri di via. Arrivati circa a metà siamo stati quindi costretti a calarci, utilizzando come ancoraggio la provvidenziale sosta del tiro adiacente al nostro, per recuperare i friend più grandi, che abbiamo poi utilizzato nella parte più alta della via per portare la corda alla catena di questo spaventoso viaggio granitico. La triplice ripetizione del tiro, piazzando sempre le protezioni dal basso, aggiunta ad un brutto incastro di corde di memoria gervasuttica, ci ha portato via tutta la giornata. È col buio che siamo arrivati al bivacco ed è così che la nostra prima giornata si è conclusa.

Matte sfoggia i due pescioloni in partenza

Dopo una notte insonne a causa dei topi che soggiornavano con noi nel bivacco, siamo scesi di quota verso la “Torre dei Cani Pazzi”, dove abbiamo salito in mattinata “La Parte Luminosa del Mondo”, una via bella e continua, nonostante la sua brevità (solo tre tiri, tutti di 6b).

Nel pomeriggio siamo risaliti verso il bivacco in direzione di una piccola, ma interessante struttura detta “Placca dei Cavai”, sulla quale abbiamo scalato un’altra breve via: “Enrica N’Cazzada”.

Lascio quindi la parola a Franci, che ci racconta la sua esperienza da capocordata su questa via.

Franci in partenza sul secondo tiro

“La seconda meta della giornata è stata la “Placca dei Cavai”, una parete slanciata e molto compatta, alta un centinaio di metri. Una volta arrivati sotto la parete, ravanando come sempre tra i rododendri, abbiamo deciso la via da percorrere lasciandoci guidare dall’istinto, dato che le relazioni relative alle vie di questa zona sono molto sintetiche, quando ci sono. Dopo esserci fatti ingolosire da una via di VI R2, con fessure anche molto grandi, abbiamo desistito, poiché le fessure erano molto sporche. La linea sembrava comunque fantastica e avendo più tempo a disposizione sarebbe davvero valsa la pena pulirla e ripeterla. Abbiamo quindi deciso di stare su una via spittata e più facile (5c massimo). La roccia, anche se un po’ lichenosa date le poche ripetizioni, era perfetta e molto lavorata già dal primo tiro. Pian piano che si saliva la spittatura si faceva più distante, ma senza complicare la scalata, dato che la roccia era sempre molto compatta e sicura. Una volta arrivati all’ultimo tiro ho subito capito che l’arrampicata sarebbe stata di grande soddisfazione: dopo una partenza in placca, si passava sotto un tetto fessurato e successivamente lo si aggirava con una bella ribaltata su una lama. Dopo aver scalato questa prima parte del tiro ero già entusiasta, ma poi ho scorto che tre metri più in alto si delineava una formazione incredibile che sul granito non avevo mai visto, una sorta di canalina lavorata dall’acqua in modo da formare dei bordi netti, ma levigati. Grazie a questi ultimi sono riuscito a progredire sicuro e con grande soddisfazione, nonostante la lontananza dei fix e la resistenza delle corde, che sul finale del tiro si è fatta davvero sentire.

Quando lo spit manca torna utile il fungo…
La famosa “canalina”

Una volta arrivati in cima, abbiamo trascorso il breve sentiero di ritorno alla malga parlando di questo bellissimo ultimo tiro. Giunti finalmente alla malga non ci siamo fatti mancare un gustoso aperitivo a base di salame e formaggio accompagnati da un buon vino.”

La seconda notte una spietata caccia ai topi nella quale Simo si è distinto per la particolare ferocia ci ha messo in condizione di dormire meglio. Il mattino seguente, dopo aver salutato il bivacco che ci ha ospitato per due notti, siamo scesi a valle. L’obiettivo della giornata era la via “Pic da Mur” al “Pilastro Anna”, una delle strutture più alte della zona. Le informazioni relative alla via erano poche, in più noi abbiamo fatto di tutto per fraintenderle. La relazione parla di nove tiri per 280 metri di sviluppo totale. I gradi dei tiri in particolare non sono riportati, mentre il grado generale è dato come 5c-A2 e AE/S1. Noi, non avendo nessuna esperienza di scalata in artificiale, abbiamo interpretato il grado riportato come una via col grado massimo di 5c e qualche passo in artificiale. Il fatto che la via fosse data S1, ci ha dato fiducia e siamo partiti rilassati.

Già dal primo tiro però, siamo rimasti alquanto perplessi: la via era chiaramente più dura di 5c e, inoltre, lungo tutti i tiri era tesa una corda fissa che oltre a rovinare esteticamente il percorso, costituiva una tentazione diabolica ogni volta che i passaggi si facevano più duri. In ogni caso la corda era utile a progredire, anche se salire un tiro tirando una corda a braccia, oltre che faticoso, non era proprio l’esperienza che stavamo cercando.

Franci è partito da capocordata sul primo tiro con difficoltà probabilmente intorno al 6b, seguito da Simo e in ultimo io che, facilitato dal fatto di essere secondo, sono riuscito a salire la lunghezza in libera.

Il secondo tiro: una delle nostre mezze corde e la corda fissa bianca

Abbiamo quindi attaccato il secondo tiro che partiva su uno strapiombino molto estetico, ma ostico allo stesso tempo. Tra ingiurie e sbuffi, Franci ha cercato di superare il passaggio in libera, ma non ha avuto successo. Ha quindi lasciato a me il comando della cordata e in qualche modo sono riuscito a passare. Il tiro proseguiva su una sezione di fessure orizzontali dove non era sempre facile rinviare le corde. Superata anche questa sezione mi sono ritrovato su una placca molto liscia e molto verticale: ho rinviato i tre spit presenti cercando di mantenere l’equilibrio su piccoli appoggi per i piedi. Dopo un’alzata sbilanciante che ha richiesto tutta la mia concentrazione, ero però annullato psicologicamente e mi sono quindi servito dell’onnipresente corda fissa per superare l’ultimo passaggio di placca: il tiro terminava poi su una facile placca appoggiata. In sosta mi hanno presto raggiunto Franci e Simo che, sebbene stanchi e furenti per la seconda indesiderata sessione di tiro alla fune, hanno acconsentito a seguirmi sul terzo tiro. La roccia era infatti molto bella, in più il tempo buono e la spittatura frequente rendevano sicura la nostra salita.

Abbiamo quindi continuato la nostra scalata su una placca appoggiata e molto tecnica. Anche in questo punto, in uscita, mi sono lasciato tentare dalla corda fissa a causa della lontananza dell’ultimo spit. Il tiro proseguiva per un diedro-camino dall’uscita abbastanza tecnica che ho scalato tutto in libera. Franci e Simo mi hanno raggiunto in sosta, ma erano ormai stufi e non avevano nessuna intenzione di proseguire. Lo comprendevo, ma ero dispiaciuto dato che, sbirciando la lunghezza successiva, mi era parso di intravedere un tiro spettacolare. Per accontentare tutti, Franci ha quindi proposto di assicurarmi sul quarto tiro, a patto che una volta arrivato in cima mi calassi per poi tornare tutti insieme alla base della parete. Ho colto al volo l’occasione e ho scalato in libera anche questo tiro che si è rivelato un po’ più facile dei precedenti e non mi ha deluso in quanto a bellezza.

Quando il gioco si fa duro, i duri tirano…
Simo in calata dal terzo tiro

In seguito, abbiamo contattato l’autore della guida che ci ha spiegato che la via non era ancora stata liberata, e che la corda fissa con cui abbiamo bisticciato è stata lasciata dall’apritore, probabilmente nell’ottica di terminare i lavori di pulizia.

Abbiamo passato la notte nel bivacco di Malga Fierollo di Sotto e la mattina dopo abbiamo scalato una via carina su una delle Torri di Fierollo: “Mi Rododendro” sulla “Torre Elisa”.

Franci da primo su MI RODODENDRO

Infine siamo tornati a Bieno, dove la nostra avventura si è conclusa con una birra e un bel pranzo a base di Pastrami (piatto della tradizione rumena, spacciato per tipico di New York e che inspiegabilmente pare sia una specialità della zona).

In quattro giorni abbiamo scalato tanto, ma tante vie ancora rimangono da salire e forse ancora di più ne rimarrebbero da aprire. La zona, infatti, è disseminata di pareti spesso non troppo grandi, ma con una roccia ottima e in un ambiente stupendo. Tali motivi e la magia del luogo ci spingeranno sicuramente a tornare, e speriamo che il nostro racconto abbia suscitato anche nei lettori un po’ di sana curiosità!

Aperitivo in quota…

Per ulteriori informazioni rimandiamo alla guida Lagorai Rock di Alessio Conz e alla pagina Facebook Lagorai Rock, sulla quale l’autore carica aggiornamenti su nuove aperture ed eventuali correzioni alla guida.

L’autore è molto disponibile e ci ha fornito lui stesso molte informazioni logistiche (condizioni dei bivacchi, punti acqua ecc.)

Un grazie a Benedetta Barbieri che ha pazientemente corretto il manoscritto sgrammaticato di tre ragazzi che non si distinguono certo per lo stile letterario.

Ciao a tutti e buone scalate!

Franci, Matte e Simo

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